“Era il suo mare: il regno aperto dei suoi anni adolescenti, il rifugio, l’amico della sua giovinezza. Bastava l’odore, perché riprovasse il contatto quasi carnale con quell’immenso corpo liquido che lo aveva sostenuto, sbattuto, accolto infinite volte”.
Giani Stuparich, “L’isola e altri racconti”
Una nostalgia di mare e di luce adriatica più che mediterranea scorre come una linfa nascosta e vivificante in queste fotografie di Roberto Kusterle. Una nostalgia che prende le forme del corpo di un uomo o di una donna, emergendo da un nero profondo anche se non assoluto; nero che è innanzi tutto il nero dell’assenza, il nero dell’origine, precondizione di ogni nascita e dunque di ogni forma: è come se il mare, che pure nelle immagini si intuisce in qualche riverbero e soprattutto si rende evidente per l’azione paziente e perenne di depositi e concrezioni, attraverso quel nero volesse ribadire, agli occhi distratti da tante immagini false e volgari da tour operator, la sua natura ancestrale e archetipica di ventre materno, la sua natura generativa e generante, la sua verità primaria e necessaria; è con quel nero che il mare, che non si vede se non per via indiretta, afferma ancora più fortemente la sua presenza quale elemento fondante: da esso emerge e poi sembra poter sprofondare ogni forma, secondo il ritmo rassicurante ma implacabile delle onde sulla battigia e il respiro lento ma impietoso delle maree che mettono a nudo o trascinano via i sedimenti della vita. Proprio per questo le forme quasi scultoree fissate dalle immagini di Roberto Kusterle potrebbero essere viste anche come un dono inatteso che il mare ci fa con il suo momentaneo defluire, con una marea a noi favorevole che ci offre i segni di antiche civiltà e di miti ormai dimenticati affinché noi, insicuri e inquieti figli dell’oggi, ne possiamo trarre beneficio nella coltivazione domestica di qualche piccola verità e magari per la cura paziente dell’anima: e comunque avremmo dovuto, quella opportunità, saperla cogliere tra il flusso e il riflusso dell’onda o di una silente marea notturna, ma molti di noi sono stati distratti dai rumori assordanti del giorno o abbagliati dalla luce troppo forte del meriggio, e il miracolo dunque non c’è stato o, peggio, è passato inosservato tra la calca brulicante dei bagnanti estivi.
Tuttavia per sua natura il mare non è rassicurante, e ben lo sapevano gli antichi: sonante e urlante lo definisce Omero e in lotta con esso pone l’uomo, ovvero l’eroe errante per antonomasia, Ulisse. Il mare per secoli è stato l’abisso, la dimensione minacciosa e oscura popolata da mostri e colma di insidie. Solo la modernità ne ha elaborato una nuova immagine quando ha collegato ad esso il concetto di sublime, il desiderio di infinito e il sentimento di una bellezza struggete; ma infine ci ha pensato la nostra postmodernità a ridurre il mare a fondale patinato, ad alibi vacanziero, a piscina non climatizzata e per questo un po’ disagevole. Ora Roberto Kusterle con quel nero denso e di ascendenza pittorica che potremmo definire pure mitteleuropeo (da indovinare sottotraccia anche sotto le apparenze tranquillizzanti dei mosaici dorati e degli smalti secessionisti d’oltralpe), con quel nero di certo non per caso tanto caro a molti artisti goriziani (fotografi e non) ci riporta a fare i conti con la dimensione per larga parte insondabile del nostro inconscio, con le sue increspature appena percettibili e le sue violente ondate che talora minacciano di staccarci dal nostro piccolo, rassicurante scoglio.
Quelle di Kusterle sono sempre figure del profondo e il Ritorno a cui egli fa riferimento ha evidentemente a che fare con le pulsioni dell’Es e i desideri più intimi dell’Io. La componente erotica e sessuale assume in questo ciclo fotografico una centralità attorno alla quale sembrano ruotare tutte le forme corporee che portano su di sé i segni lasciati dal mare Vita, dal mare Psiche, dal mare Anima. Solo che la sessualità, pur esplicitandosi nelle sue diverse manifestazioni anche al di là delle convenzioni di genere, si dimostra sempre espressione parziale o riduttiva della pulsione dominante, quella dell’Eros, della pienezza espansiva della vita, del tendere inesausto all’armonia vitale.
E però, secondo le teorie freudiane, ad Eros si contrappone in termini dualistici Thanatos, la pulsione alla distruzione e alla morte la quale, in contrapposizione al principio vitalistico di piacere, tende a far tornare il vivente a una forma di quiete priva di desiderio, a una forma d’esistenza preorganica o inorganica. Ora, se consideriamo proprio da questo punto di vista le fotografie di Roberto Kusterle qui raccolte, ci accorgiamo che la mineralizzazione dei corpi, il loro ritornare ad essere di pietra assume un evidente riferimento psichico, pure al di là delle intenzioni dichiarate dall’autore. Dunque quelle che sembrano essere delle erme o delle sculture antiche scoperte magari per caso nelle profondità marine, nella prospettiva di un accostamento, sia pure intuitivo, alla dinamica inconscia dismettono le forme esteriori di un vago richiamo classicistico e assumono invece la pregnanza, al tempo stesso suadente e conturbante, di un riferimento alla dimensione inconscia dell’uomo, ancestrale quanto perenne.
Del resto è evidente che la nostalgia di mare di cui parlavo all’inizio (nostalgia-desiderio del mare Vita, del mare Eros: propria di ciascun individuo) è soprattutto nostalgia dei sentimenti, dell’intimità emotiva, dell’affettività, della philia. I corpi messi a nudo da Kusterle si cercano, si stringono, si contorcono appassionatamente, ma soprattutto si abbracciano con gli occhi chiusi del desiderio e del sogno: e con quell’abbraccio ci dicono di non essere unicamente “esperienza sensibile” (come vorrebbe la visione riduzionistica del nostro tempo), ma di essere più di ogni altra cosa anime che possiedono in potenza un corpo: la Vita stessa attraversa quei corpi che, gettati fin dalla nascita indifesi in un modo ostile, cercano nell’unione erotica un sostanziale superamento della paura della solitudine e del vuoto esistenziale; proprio per questo l’Ombra del desiderio e Il morso del piacere, magari attraverso il Pudore, possono tramutarsi in Ospitalità, in Soccorso e nella materna, protettiva Culla del mare.
L’altra faccia speculare di Eros è Thanatos e questi corpi, preda del tempo pur senza avere alcuna precisa caratterizzazione temporale (il sudore del sale che percorre le loro membra non è altro che il segno dell’evaporazione lenta dei giorni), ne sono ben consapevoli.
Nondimeno Eros significa anche desiderio di una continua e strenua rinascita, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo. E simbolo archetipico di ogni origine, della possibilità di ogni nuovo inizio è da sempre il mare: per altre vie ce lo conferma oggi scientificamente la biologia, ma ce lo aveva già detto poeticamente il mito quando ci descrisse la nascita di Venere, ovvero del desiderio e della bellezza, dalle onde cerulee di un Mediterraneo allora fecondo. Roberto Kusterle nella sequenza intitolata Riverberi ha immerso corpi femminili senza volto nel liquido amniotico marino proprio per ribadire la necessità incessante di tale rinascita, che pure precede ogni caratterizzazione individuale: la schiuma del mare li lambisce appena e noi, intuendo la superficie, attendiamo la loro (la nostra) emersione; si tratterà di scongiurare qualche possibile naufragio vincendo la bora scura e le onde più minacciose, ma alla fine, ne siamo sicuri, la risalita avverrà: al sorgere del sole, simbolicamente abbandoneremo noi pure l’elemento protettivo delle origini e partiremo, forniti del nostro piccolo eroismo quotidiano, per una nuova esplorazione del mondo.