“Divinità minori […]. Pericolose, come lo è la memoria quando è indagata nei suoi recessi più oscuri, come lo sono il desiderio e il tempo stesso” 1.
In una luce livida, le ninfe di Kusterle emergono da un mondo sommerso: il mare, a giudicare dallo stadio animale delle loro metamorfosi. Chele, pinne e tentacoli ormai parte dei corpi, come estensioni della carne ce le direbbero Nereidi, ma si tratta di creature che potrebbero essere risalite fino a noi nell’opaco sciabordio di un canale come quelli su cui fluitava l’Atalante di Vigo, al gorgogliare di una chiusa non distante dalla città; perché sembrano condividere, della moderna esistenza, la torbida sensazione che talora ci assale di non avere il pieno controllo della nostra identità.
Eccole, reduci dalle profondità di un viaggio al termine della notte che ce le restituisce con addosso la vitalità di una natura onnivora e brulicante, intrise di seduzione, ma al tempo stesso con un sapore di morte già consumata.
Sono personaggi che si potrebbero immaginare in un disegno di Klinger, pervasi di una sensualità che sta nell’erotismo implicito dell’offrirsi in posa al ritratto, ma è anche nella viscida o cheratinica evidenza di una compenetrazione metamorfica: a partire quasi sempre dalle chiome, in altre opere di Kusterle percorse da un repentino serpeggiare di radici e qui ridotte ad anguiforme intrico di ventose, serrate sotto una celata d’arti di granchio.
La trasformazione germina fin sui tessuti, dove le squame di pesciolini guizzanti si fanno scintillio di lamè. Dove invece gli abiti conservano impronta di umana sartoria, essi parlano di altre epoche, di una moda dal dolciastro, necrotico sentore di tempo andato. La loro è una fibra che dà l’impressione di potersi sbriciolare sotto i nostri occhi come gli affreschi romani nel finale felliniano di Satyricon, ma che per ora conserva in sé l’impronta di Bronzino e Michelangelo, in bilico tra il classico e le sofferte dissonanze del mondo nuovo.
Come in quegli antichi artifici di Maniera, le figure sono irreali; in questo caso perché senz’acqua.
Non hanno la luccicante e spontanea sensualità di una sirena o d’una cinematografica spia in bikini che emerge gocciolante dalle onde, ma quella più torbida, alchemicamente lambiccata, di un parto della psiche.
Silenziose, quasi fossero consce dell’inanità del dire, di come “non resistono le nostre frasi al disastro del loro arredo di bave” 2, queste creature ci turbano perché le percepiamo emerse da una dimensione profonda, da un “sotto la superficie” che mette in crisi la planarità del nostro sguardo; e che forse chiama in causa l’ambiguità quale unica concreta condizione del nostro essere.
Cosa sono, queste ninfe? Memoria degli abissi mitici da cui veniamo o proiezione verso quanto di oscuro ci attende? Nei loro pizzi provocanti ma frusti sembra di leggere il futuro ricordo d’una schermaglia amorosa, di una dialettica dei corpi e dello spirito di cui nella prevedibile affermazione di autosufficienza dell’io, con la sua pervasiva specularità “… quello straccio seducente è uno dei residui rimasti […]. Qualcosa come un cencio del tempo” 3.
Fulvio Dell’Agnese